lunedì 6 ottobre 2008

LA GUERRA IN GEORGIA E LE CONTRADDIZIONI DELL’ORDINAMENTO INTERNAZIONALE

Tutto inizia, almeno di primo acchito, nella notte tra il 7 e l’8 agosto scorso, quando il presidente georgiano filo-occidentale Mikheil Saakashvili, furbescamente approfittando della cerimonia di apertura dei Giochi di Pechino che si sarebbe tenuta entro poche ore, decide di lanciare un’offensiva militare in Ossezia del Sud, piccola regione caucasica che conta 3900 km2 di superficie (più o meno come la somma delle province di Chieti e Pescara) e circa 70000 abitanti, di cui quasi la metà concentrati nella capitale Tskhinvali. L’Ossezia del Sud, per chi non lo sapesse, è un territorio dove l’influenza russa è fortissima, le spinte secessioniste pressoché incontrollabili, e l’appartenenza alla Georgia una questione vera solo sulla carta ormai già da qualche anno. Infatti prima dell’ultimo conflitto c’erano già stati due referendum popolari, nel 1992 e nel 2006, che ne avevano sancito la sostanziale indipendenza (il quesito refendario del 2006 recitava più o meno così: “dovrebbe l’Ossezia del Sud preservare il suo status di Stato de facto indipendente?” e il 99% degli elettori votò SI), sebbene mai riconosciuta ufficialmente fino ad ora non soltanto dal governo georgiano e da quelli occidentali, ma neanche dalla grande protettrice Russia, che si era limitata ad informali ed ufficiose felicitazioni. Emerge allora, da quel poco detto finora, che la questione osseta non inizia affatto nella notte del 7 agosto, come si diceva in avvio. Al contrario, la crisi esplosa un mese orsono rappresenta soltanto il culmine di una vicenda che affonda le sue radici molto più indietro nel tempo e finisce col coinvolgere enormi interessi come il controllo delle direttrici energetiche, e temi altrettanto grandi come la primazia del modello occidentale, ora che detto modello appare sbiadito ed acciaccato a causa di una profonda crisi economica quasi senza precedenti (con un solo, preoccupante precedente delle stesse dimensioni) e dal successo di una nuova forma di capitalismo che a differenza di quello classico non si accompagna all’affermazione di una classe emergente che pretende diritti e riforme socio-politiche: un capitalismo, quello cinese, che fa della slealtà il suo tratto caratterizzante (si pensi alla contraffazione dei prodotti occidentali, allo sfruttamento subumano della manodopera ecc.) e si dimostra capace di annichilire in pochi decenni tre secoli abbondanti di storia.
Il conflitto in Ossezia, poi estesosi all’Abkhazia, esprime in sostanza tutte le contraddizioni dell’attuale ordine mondiale. È bene non cedere alla tentazione di facili e purtroppo diffuse banalizzazioni. Non sono mancati, infatti, commenti semplicistici e un po’ ingenui che hanno tentato di etichettare la guerra osseta come la guerra del petrolio, frutto delle tensioni sempre maggiori che scaturiscono dalla corsa all’oro nero, che in quell’area conosce un momento di straordinaria complessità: da un lato, infatti, vi è la Russia che con il suo CPC (Caspian Pipeline Consortium) garantisce il passaggio diretto su territorio russo del petrolio kazako che poi arriva in Europa attraverso il Mar Nero, transitando ovviamente nei porti russi; dall’altro, vi sono l’Europa e gli Stati Uniti che anelano a far passare l’oro nero su percorsi alternativi, sia per indebolire l’influenza russa in quell’area, sia per diminuire la dipendenza energetica che almeno per l’Europa è totale e drammatica (ragion per cui il Vecchio Continente si è ben guardato dal deliberare sanzioni contro Mosca, che già si era premunita annunciando possibili ritorsioni). Tutto questo è di evidenza palmare e quindi innegabile. Non bisogna però cadere nell’errore, diffuso soprattutto in certi ambienti della sinistra italiana, di considerare il tutto soltanto dal punto di vista economico, in termini meramente affaristici. Come è avvenuto per esempio con la guerra in Iraq, che è stata bollata come la guerra dei petrolieri ignorando colpevolmente l’assurdo progetto politico e culturale dei neocons di conquistare il Medio Oriente per “contagio democratico” (mi si passi il termine): l’idea, riassunta molto grossolanamente per ragioni di spazio, era quella di disseminare qua e là delle democrazie filo-occidentali (Afghanistan, Iraq), favorendone lo sviluppo e la crescita in primo luogo dal punto di vista economico, nella speranza che il benessere e le riforme “esportate” in quei luoghi potessero innescare un circolo virtuoso in grado di conquistare, per contagio appunto, i paesi limitrofi. Era, in sostanza, un agghiacciante ma articolato progetto ideologico e culturale, che aveva come fine ultimo la normalizzazione di un’area da sempre considerata fondamentale per gli interessi americani nello scacchiere mondiale (rafforzando, inoltre, la posizione dello storico alleato israeliano). Allo stesso modo, la guerra sudosseta è molto di più di un oil rush. In ballo non c’è soltanto il petrolio, ma molto di più: si pensi alla possibile conclusione di un accordo di cooperazione economica, o addirittura di libero scambio, tra l’Unione Europea e la Federazione russa; al nodo irrisolto dello scudo spaziale, quindi in definitiva della supremazia militare; alla malsana idea russa di trattare il cosiddetto “vicino estero” quasi alla stregua di un affare interno; e l’elenco potrebbe continuare.
Volendo tracciare un bilancio, questa guerra ha messo in chiaro alcuni punti fermi. Giovanni Gasparini di Affari Internazionali, molto opportunamente, ha affermato che da “questo conflitto tutti gli attori rischiano in realtà di uscire perdenti”. In che senso? Innanzitutto la Georgia esce con le ossa rotte per via dei gravi danni subiti a livello infrastrutturale, della crisi di credibilità che rischia ora di travolgere il governo Saakashvili, delle emergenze umanitarie scatenate dalla guerra (Amnesty parla di 100 mila rifugiati) e soprattutto perde la guerra strettamente intesa, a causa del defintivo distacco di Ossezia del Sud ed Abkhazia. La Russia, dal canto suo, ha patito una forte crisi di immagine a livello internazionale, una fuga di capitali praticamente senza precedenti, ha finito col benedire la pratica della secessione unilaterale che potrebbe drammaticamente virare a suo sfavore (avete idea di quante micro-regioni potrebbero avanzare pretese di indipendenza in futuro, a cominciare dalla Cecenia?) ed ha causato l’ulteriore effetto collaterale di dipanare tutti i residui dubbi della Polonia circa lo scudo spaziale, dato che Varsavia ha firmato in un battibaleno l’accordo per la concessione del proprio territorio. Gli Stati Uniti pagano in termini economici in un momento di grave crisi di sistema (1 miliardo di dollari circa), si dimostrano incapaci di controllare un piccolo alleato come la Georgia (la Casa Bianca era infatti contraria all’intervento in Ossezia ed ha provato inutilmente a dissuadere Saakashvili) e si ritrovano a dover affrontare un nuovo possibile fronte di tensioni che si va ad aggiungere a quello afghano, iracheno e iraniano, per limitarsi ai quelli più caldi. Infine, l’Unione Europea si rivela in tutta la sua debolezza: da un lato, emerge con chiarezza che l’immagine di potenza civile disarmata si sgretola come pasta frolla sotto il colpi dei cannoni; dall’altro, questa crisi non fa che ribadire il disperato bisogno di riforme che la attanaglia da tempo. Infatti, è ben vero che la risposta europea è stata unitaria, repentina ed autorevole, ma è altrettanto vero che ciò è potuto avvenire solo grazie al prestigio della Presidenza francese. Che cosa sarebbe accaduto se presidente di turno fosse stata Malta o l’Estonia? Avremmo mandato a Mosca Edward Fenech Adami, il presidente maltese? La turnazione stava stretta ai quindici, figuriamoci ai 27. All’Europa serve, tra le altre cose, un leader stabile, forte e credibile, come prevede il Trattato di Lisbona: ma, ahimè, qualcuno brinda al suo fallimento …

Luca Pantaleo

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